NON MOLESTERAI IL FORESTIERO NÉ LO OPPRIMERAI,
PERCHÉ VOI SIETE STATI FORESTIERI NEL PAESE D'EGITTO
(Esodo 22,20)

Xenos è in greco lo straniero, l'ospite,
ed a sua volta l'italiano "ospite" indica colui che accoglie e colui che è accolto.
XENODOKÌA è l'accoglienza dell'ospite/straniero.
La Calabria nel corso dei secoli è stata meta di moltissimi popoli, a volte ospiti,
a volta ostili, diversi per tradizioni, lingue e religioni:
greci, latini, arabi, ebrei, normanni, albanesi, spagnoli,
occitanici, slavi, armeni, e altri ancora.
Di quel che rimane di questi flussi e influssi, della loro storia,
della loro cultura e della loro attualità vuole occuparsi questo blog,
senza ignorare le nuove immigrazioni.
Mi occuperò quindi dei popoli di antico insediamento e tuttora presenti:
Arbëreshe, Grecanici, Occitani e Rom, con occasionali incursioni
tra popoli non più presenti (Armeni e Germani) o presenti in modo sporadico (
Ebrei)
o in nuove forme (Arabi e Slavi), o presenti per la prima volta nelle nostre terre
in questi ultimi anni (Cinesi, Curdi, Romeni).

Eventi e appuntamenti

6/18 ottobre, Vaccarizzo (CS), S. Costantino Albanese (PZ), Melpignano (LE), Oristano: Per isole. Culture di minoranze

6/18 ottobre Cosenza, Campobasso, Potenza, Roma: Per isole. Culture di minoranze

31 ottobre Carosino (TA): Gli arbereshe e il Mediterraneo, e del libro "Il Mediterraneo vissuto" di Pierfranco Bruni

lunedì 29 settembre 2008

Integrare è possibile

Ilario Filippone da CalabriaOra - Domenica 28 settembre 2008

Il “modello Riace” attraverso la storia di Aziz, arrivato in mare dall’Afghanistan
Ha viaggiato da solo dopo aver perso i genitori. «Tutta mia famiglia morta per bomba»
A Crotone ha rivisto il cugino
Il sindaco Lucano: «Non sono clandestini, gli 80 che ospitiamo hanno ottenuto asilo politico. E sono utili»



Aziz, sette anni, afgano, ha imparato a mascherare il rossore dell’imbarazzo portando le mani al volto. Sorride. Ha toppato: s’è messo a scrivere l’iniziale del suo nome in minuscolo e la maestra lo ha corretto. Fa la seconda elementare, siede al primo banco con Mohamed, nove anni del Libano, e Ana, una ragazzina dalla pelle scura che ha lasciato l’Etiopia con il fratellino, Thomas.
Aziz non ha padre né madre. Li ha visti morire ammazzati quel giorno che una bomba gli rase al suolo casa. Per dirti che è vivo per miracolo smozzica qualche parola in italiano: «Sono in Italia per problema Afghanistan. Tutta mia famiglia morta sotto bomba, ma io no. Per venire qui, io solo in mare», racconta.
Quando è sbarcato in Calabria lo hanno portato al centro di prima accoglienza di Crotone. Lì ha rivisto il cugino, Sabiy, di cui da mesi aveva perso ogni traccia. «Eccolo, si chiama Sabiy, ha sette anni. Anche lui di Afghanistan come me». Sabiy e Aziz, aspetto esteriore tipico del paese da cui provengono, ora vivono a Riace. Frequentano la stessa classe, la stessa casa, gli stessi amici, gli stessi posti.
«Non si staccano mai, ma si sono integrati bene anche con il resto della classe» dice la maestra.
Riace, un borgo in pietra che ha aderito a un progetto di accoglienza e sostegno agli immigrati predisposto dal ministero dell’Interno, è ben amministrato. Il primo cittadino, Domenico Lucano, di buon’ora lo trovi in strada alle prese coi dipendenti comunali. Che è più sostanza che forma lo capisci quando lo vedi. Niente cravatta d’ordinanza, solo jeans e camicia stanca, che indossa come capita capita. Qui lo chiamano tutti Mimmo. E’ un uomo alla mano, dal sorriso facile, ti ricorda sempre di dargli del “tu”.
Ma se provi a chiedere dei clandestini, non ti fa finire, ti stoppa subito: «Non sono clandestini, le ottanta persone che ospitiamo hanno chiesto e ottenuto asilo politico. E’ gente utile anche all’economia locale, grazie a loro abbiamo riscoperto l’artigianato. In più, con le trenta euro che il ministero dell’Interno ci dà per ognuno, riusciamo a garantire a tutti casa, cibo, istruzione e assistenza legale», ti spiega nel suo ufficio in cui campeggiano poster di Che Guevara dappertutto.
Accanto al sindaco c’è Cosimina Ierinò, una signora minuta con gli occhiali stampati sul viso curato. La conoscono tutti in paese. Fa la maestra, ha il compito di insegnare la lingua italiana agli adulti. Ogni sera scorre ad alta voce le lettere dell’alfabeto con afgani, eritrei, libanesi ed etiopi. E’ di fretta, alle dieci in punto ha il corso di formazione che segue con grande attenzione. «E’ previsto dal progetto. Faccio l’alunna di giorno e l’insegnante di sera. Stamane quei signori ci spiegano l’asilo politico. Hanno deciso così: prima l’aspetto giuridico, poi ci diranno come interagire con loro». Cosimina non è la sola a prendersi cura degli immigrati.
Con lei lavora una ragazza, «un’altra operatrice del progetto» che vedi arrivare con delle buste cariche di cibo. Le è hanno affidato questa mansione. Ogni sera fa il giro delle case:«Mi lasciano la lista delle cose che gli necessitano, così io e le altre gliele facciamo trovare il giorno dopo. Adorano i nostri prodotti, agli eritrei addirittura piace molto il piccante», racconta. Anche i pochi commercianti del posto stanno facendo la loro parte. Devono essere ancora saldati, eppure non hanno mai negato gli alimenti alla comunità straniera. «Lo sanno, oramai è noto a tutti: i soldi del ministero, anche se sono soldi sicuri, tardano ad arrivare. Però prima o poi li incasseranno, non si sono mai persi i soldi pubblici», spiega Cosimina.
Gli immigrati che popolano Riace sono padri, madri, figli, fratelli, sorelle, cugini, zii. A tutti è stato concesso lo status di rifugiato. Dice la convenzione di Ginevra che «il rifugiato è colui che temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese».
Così Lemhem, 26 anni, professione interprete, è una «rifugiata», una donna fuggita dal paese d’origine per mettersi in salvo. E’ venuta via dall’Etiopia il giorno in cui Addis Abeba decise di entrare in guerra con l’Eritrea per conservare il villaggio di Badme, un minuscolo fazzoletto di terra che non appare neppure sulla carta geografica ma che ha provocato 90 mila morti. E’ in Italia da anni, di Riace ha memorizzato ogni angolo. Riesce a comunicare con italiani, afgani, libanesi, eritrei, etiopi. Nell’ultimo periodo è su di giri per la nascita di Brhane Feven, una bambina di colore partorita lo scorso mese dall’amica Negash. A mamma e figlia hanno fatto trovare televisione satellitare in camera da letto. « Così possono informarsi su quanto avviene in Etiopia », fa Lehmem, pelle scura e occhi a mandorla.
Raccontano in paese che «non sono affatto passivi» quelli della comunità straniera. «Tutt’altro: socializzano, leggono, si informano, vogliono imparare la lingua italiana». Lavorano il vetro, la ceramica, con la ginestra riescono a produrre tappeti, zaini. Sgobbano senza sosta, il desiderio di riscatto spinge molte donne a un impegno doppio, ad esempio a lavorare e prendersi cura della famiglia.
Come Mohna, una donna del Libano che stamane si è presentata al laboratorio di ricamo assieme al figlio di due mesi, Mahdi, di cui prevede un avvenire da medico. «Lui e i suoi fratelli, che ora sono a scuola, erano in mare con me e mio marito» ti dice mentre muove adagio il seggiolone a dondolo che sorregge il piccolo Mahdi. Nella casupola in pietra che tutti conoscono come il laboratorio di ricamo, Mohna lavora con Zaid e Abbheba, due ragazze di colore dell’Eritrea. Che sono diventate amiche lo hanno detto perfino a una giornalista venuta dalla Finlandia per un reportage sulla condizione degli immigrati. «Mi trovo bene con loro, vengo a lavorare con piacere. Non tornerei mai in Libano, alla guerra preferisco Riace».

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