NON MOLESTERAI IL FORESTIERO NÉ LO OPPRIMERAI,
PERCHÉ VOI SIETE STATI FORESTIERI NEL PAESE D'EGITTO
(Esodo 22,20)

Xenos è in greco lo straniero, l'ospite,
ed a sua volta l'italiano "ospite" indica colui che accoglie e colui che è accolto.
XENODOKÌA è l'accoglienza dell'ospite/straniero.
La Calabria nel corso dei secoli è stata meta di moltissimi popoli, a volte ospiti,
a volta ostili, diversi per tradizioni, lingue e religioni:
greci, latini, arabi, ebrei, normanni, albanesi, spagnoli,
occitanici, slavi, armeni, e altri ancora.
Di quel che rimane di questi flussi e influssi, della loro storia,
della loro cultura e della loro attualità vuole occuparsi questo blog,
senza ignorare le nuove immigrazioni.
Mi occuperò quindi dei popoli di antico insediamento e tuttora presenti:
Arbëreshe, Grecanici, Occitani e Rom, con occasionali incursioni
tra popoli non più presenti (Armeni e Germani) o presenti in modo sporadico (
Ebrei)
o in nuove forme (Arabi e Slavi), o presenti per la prima volta nelle nostre terre
in questi ultimi anni (Cinesi, Curdi, Romeni).

Eventi e appuntamenti

6/18 ottobre, Vaccarizzo (CS), S. Costantino Albanese (PZ), Melpignano (LE), Oristano: Per isole. Culture di minoranze

6/18 ottobre Cosenza, Campobasso, Potenza, Roma: Per isole. Culture di minoranze

31 ottobre Carosino (TA): Gli arbereshe e il Mediterraneo, e del libro "Il Mediterraneo vissuto" di Pierfranco Bruni

martedì 30 settembre 2008

Valdesi in Calabria oggi

Abbiamo visto precedentemente una breve storia sommaria degli Occitani di Calabria, sterminati a causa della loro fede valdese.
Vediamo adesso le attuali presenze valdesi in Calabria, attraverso la realtà dell'
Unione delle Chiese metodiste e valdesi.



Attualmente i Valdesi sono presenti in Calabria con cinque chiese e due istituzioni.
Le chiese sono quelle di Catanzaro, Cosenza, Dipignano (CS), Vincolise di Magisano (CZ) e Reggio Calabria.
Le due istituzioni sono la Casa valdese a Guardia Piemontese (CZ) e il Centro evangelico Bethel nella Sila.

CHIESE

Le due comunità di Catanzaro e di Vincolise di Magisano agiscono in stretta cooperazione, ed hanno una lunga storia comune.
A Catanzaro ebbe origine da Antonio Greco, eroe del Risorgimento, nominato da Garibaldi pro-dittatore per la Calabria, poi deputato al Parlamento dell'Italia unita.
A Magisano, ai primi del '900, Ernrico Scorza, convertito insieme a tutta la famiglia dai fratelli maggiori (nella foto a lato, i fratelli Scorza) tornati dall'America dove erano emigrati, fu il principale animatore della Comunità, la quale si sviluppò al punto da essere assaltata da paesani cattolici istigati dal local parroco.
Oggi le due comunità contano un centinaio di fedeli, e la Comunità di Catanzaro ha dato al mondo evangelico il famoso pastore Sergio Rostagno.

Gemelle sono anche le comunità di Dipignano e Cosenza, delle quali la prima, come quella di Vincolise, nasce ai primi del secolo scorso, ed anche qui c'è una storia di emigrazione e di ritorno.
Il primo evangelico fu Francesco Scornaienchi, convertito nel 1902 da un compagno di lavoro.
Dopo l'emigrazione in vari paesi, sia per motivi di lavoro che di evangelizzazione, torna a Dipignano, dove, con molte difficoltà converte prima i familiari e poi anche altri, iniziando a tenere il culto nella sua abitazione.
Intanto, intorno al 1930, il pastore metodista Alfredo Franco, fonda la chiesa di Cosenza, visitando anche la comunità di Dipignano.
Nel 1942 la comunità di Cosenza (e le comunità minori di Dipignano e Aprigliano, che ebbe breve vita) aderiscono alla Chiesa valdese; nel 1945 gli aderenti a questa comunità sono circa una cinquantina.
Nel 1968 finalmente viene edificato il primo edificio pubblico per il culto, che fino ad allora si svolgeva in case private, e negli anni '80 Dipignano diventa sede della comunità, da cui "dipende" Cosenza, nonché Guardia Piemontese, dove il culto si svolge una volta al mese.
Il 21 maggio 2004 viene inaugurato il nuovo Tempio a Dipignano, l'ex chiesa di S. Ippolito (nella foto).

"Gemellata" con la Chiesa di Messina, e servita dallo stesso pastone, è invece quella di Reggio Calabria, sulla quale purtroppo non sono riuscito a rintracciare nessuna notizia di carattere storico, nonostante il suo bel sito.

ISTITUZIONI

CENTRO EVANGELICO BETHEL

Sorge nella Sila Piccola, a 1200 metri di altitudine, fra i villaggi turistici Racise e Mancuso, in provincia di Catanzaro.
Aperto a tutti, intende manifestare il rapporto della predicazione evangelica con la realtà sociale del mondo. Nei periodi in cui non vi siano attività programmate, il Centro è disponibile all'accoglienza di gruppi autogestiti secondo le condizioni stabilite dall'apposito regolamento.

CASA VALDESE

Il 25 settembre 1983, a Guardia Piemontese veniva inaugurato il Centro culturale "Gian Luigi Pascale”, con annesso Museo aperto tutto l'anno; nel 1985, veniva ultimata la "Casa valdese” ad esso adiacente, capace di ospitare una ventina di persone, in quattro appartamenti arredati, soprattutto nel periodo estivo.

lunedì 29 settembre 2008

I Rom con Cosma e Damiano

Elia Fiorenza da CalabriaOra - Domenica 28 settembre 2008

Cosma e Damiano i santi che vegliano sui viaggiatori

Il 26 e 27 del mese di settembre ricorre, come ogni anno, la solenne celebrazione dei santi medici Cosma e Damiano. Giorni in cui la devozione popolare diviene forza evocativa e momento di religiosità pura, dove ad un’interrotta preghiera di supplica si congiungono atti spirituali votivi che rivelano quanto l’essere umano è provato dalla sofferenza, ma anche sorretto dalla fede e dalla sete di un Dio misericordioso. Gesti e segni che qui generano domande sull’esistenza, sull’umanità alla ricerca di un senso. Lo sguardo si posa sui piedi scalzi dei pellegrini che arrivano al santuario dedicato ai Santi Medici: piedi consumati, contusi che dipingono nella realtà il viaggio della vita.
E poi i canti, le invocazioni, le lodi, le testimonianze appaiono dense di significato, di un tempo che sfugge ad ogni distanza per favorire l’animo alle promesse di una fervida speranza. C’è un passaggio obbligatorio nella vita di ognuno: il momento della condivisione, dell’incontro, della diversità. E qui, per le stradine di Riace che confluiscono presso il santuario, echeggiano i tamburelli, le grida, accanto ai colori accesi che varcano la soglia dell’abitudine per cogliere invece l’essenzialità.
Nei cantucci gremiti, suggestivamente i panneggiamenti scivolano via per dar spazio ai cerchi di condivisione di varie generazioni che manifestano insieme il culto ai Santi Anargiri Cosma e Damiano con suoni e giaculatorie. Come un nastro magnetico e saturo la memoria si ravvolge a strattoni, con arresti istantanei, che coincidono coi momenti più straordinari, decrittati dalla meraviglia provata di fronte ad una folla di persone in cammino, in movimento, in esultanza. E’ la presenza singolare e calorosa degli zingari, rom e sinti, che caratterizza con questa festosità l’atmosfera di Riace in occasione della festa dei santi Medici. I loro costumi, il loro status vivendi così particolare e inconsueto, e quelle loro appassionate piroettate folkloristiche.
La loro danza cattura l’energia in ogni soffio d’aria nell’asimmetria dei loro movimenti, veri svolgimenti di un’armonia afferrata nelle leggi di gravità.
Essi guardano il mondo che li circonda come avessero in mano le chiavi della felicità. Indossano il presente di ogni età, si nascondono dietro i loro sgargianti costumi nei toni della malva, del verde, del rosso e dell’oro ornati di nastri, gioielli e ricami. Questo dichiara concretamente la loro identità.
Un’identità preziosa questa dei rom, che si integra alla rottura della routine, dove convergono solo usi e costumi ormai tutti conformati a perbenismi astiosi. Un’identità che diviene spaccato antropologico, oltre che premessa alla loro cultura sempre originale e fiera, da autentici peregrini per ager: i viandanti che attraversano campi e pericoli pur di raggiungere la meta prefissata.
Nomadi del mondo insomma che si amalgamano agli improvvisi cambiamenti della natura, certi che il sacrificio porta ricompensa. La loro storia racconta emozioni, sfide, avventure e il loro ritrovarsi ogni anno a vivere la festa di questi santi taumaturgici, venerati proprio dagli zingari come loro protettori e patroni, rappresenta una possibilità di confronto che ricorda quanto sia multicolore la terra e quanto siano diversi tra loro gli uomini che la abitano.

Integrare è possibile

Ilario Filippone da CalabriaOra - Domenica 28 settembre 2008

Il “modello Riace” attraverso la storia di Aziz, arrivato in mare dall’Afghanistan
Ha viaggiato da solo dopo aver perso i genitori. «Tutta mia famiglia morta per bomba»
A Crotone ha rivisto il cugino
Il sindaco Lucano: «Non sono clandestini, gli 80 che ospitiamo hanno ottenuto asilo politico. E sono utili»



Aziz, sette anni, afgano, ha imparato a mascherare il rossore dell’imbarazzo portando le mani al volto. Sorride. Ha toppato: s’è messo a scrivere l’iniziale del suo nome in minuscolo e la maestra lo ha corretto. Fa la seconda elementare, siede al primo banco con Mohamed, nove anni del Libano, e Ana, una ragazzina dalla pelle scura che ha lasciato l’Etiopia con il fratellino, Thomas.
Aziz non ha padre né madre. Li ha visti morire ammazzati quel giorno che una bomba gli rase al suolo casa. Per dirti che è vivo per miracolo smozzica qualche parola in italiano: «Sono in Italia per problema Afghanistan. Tutta mia famiglia morta sotto bomba, ma io no. Per venire qui, io solo in mare», racconta.
Quando è sbarcato in Calabria lo hanno portato al centro di prima accoglienza di Crotone. Lì ha rivisto il cugino, Sabiy, di cui da mesi aveva perso ogni traccia. «Eccolo, si chiama Sabiy, ha sette anni. Anche lui di Afghanistan come me». Sabiy e Aziz, aspetto esteriore tipico del paese da cui provengono, ora vivono a Riace. Frequentano la stessa classe, la stessa casa, gli stessi amici, gli stessi posti.
«Non si staccano mai, ma si sono integrati bene anche con il resto della classe» dice la maestra.
Riace, un borgo in pietra che ha aderito a un progetto di accoglienza e sostegno agli immigrati predisposto dal ministero dell’Interno, è ben amministrato. Il primo cittadino, Domenico Lucano, di buon’ora lo trovi in strada alle prese coi dipendenti comunali. Che è più sostanza che forma lo capisci quando lo vedi. Niente cravatta d’ordinanza, solo jeans e camicia stanca, che indossa come capita capita. Qui lo chiamano tutti Mimmo. E’ un uomo alla mano, dal sorriso facile, ti ricorda sempre di dargli del “tu”.
Ma se provi a chiedere dei clandestini, non ti fa finire, ti stoppa subito: «Non sono clandestini, le ottanta persone che ospitiamo hanno chiesto e ottenuto asilo politico. E’ gente utile anche all’economia locale, grazie a loro abbiamo riscoperto l’artigianato. In più, con le trenta euro che il ministero dell’Interno ci dà per ognuno, riusciamo a garantire a tutti casa, cibo, istruzione e assistenza legale», ti spiega nel suo ufficio in cui campeggiano poster di Che Guevara dappertutto.
Accanto al sindaco c’è Cosimina Ierinò, una signora minuta con gli occhiali stampati sul viso curato. La conoscono tutti in paese. Fa la maestra, ha il compito di insegnare la lingua italiana agli adulti. Ogni sera scorre ad alta voce le lettere dell’alfabeto con afgani, eritrei, libanesi ed etiopi. E’ di fretta, alle dieci in punto ha il corso di formazione che segue con grande attenzione. «E’ previsto dal progetto. Faccio l’alunna di giorno e l’insegnante di sera. Stamane quei signori ci spiegano l’asilo politico. Hanno deciso così: prima l’aspetto giuridico, poi ci diranno come interagire con loro». Cosimina non è la sola a prendersi cura degli immigrati.
Con lei lavora una ragazza, «un’altra operatrice del progetto» che vedi arrivare con delle buste cariche di cibo. Le è hanno affidato questa mansione. Ogni sera fa il giro delle case:«Mi lasciano la lista delle cose che gli necessitano, così io e le altre gliele facciamo trovare il giorno dopo. Adorano i nostri prodotti, agli eritrei addirittura piace molto il piccante», racconta. Anche i pochi commercianti del posto stanno facendo la loro parte. Devono essere ancora saldati, eppure non hanno mai negato gli alimenti alla comunità straniera. «Lo sanno, oramai è noto a tutti: i soldi del ministero, anche se sono soldi sicuri, tardano ad arrivare. Però prima o poi li incasseranno, non si sono mai persi i soldi pubblici», spiega Cosimina.
Gli immigrati che popolano Riace sono padri, madri, figli, fratelli, sorelle, cugini, zii. A tutti è stato concesso lo status di rifugiato. Dice la convenzione di Ginevra che «il rifugiato è colui che temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese».
Così Lemhem, 26 anni, professione interprete, è una «rifugiata», una donna fuggita dal paese d’origine per mettersi in salvo. E’ venuta via dall’Etiopia il giorno in cui Addis Abeba decise di entrare in guerra con l’Eritrea per conservare il villaggio di Badme, un minuscolo fazzoletto di terra che non appare neppure sulla carta geografica ma che ha provocato 90 mila morti. E’ in Italia da anni, di Riace ha memorizzato ogni angolo. Riesce a comunicare con italiani, afgani, libanesi, eritrei, etiopi. Nell’ultimo periodo è su di giri per la nascita di Brhane Feven, una bambina di colore partorita lo scorso mese dall’amica Negash. A mamma e figlia hanno fatto trovare televisione satellitare in camera da letto. « Così possono informarsi su quanto avviene in Etiopia », fa Lehmem, pelle scura e occhi a mandorla.
Raccontano in paese che «non sono affatto passivi» quelli della comunità straniera. «Tutt’altro: socializzano, leggono, si informano, vogliono imparare la lingua italiana». Lavorano il vetro, la ceramica, con la ginestra riescono a produrre tappeti, zaini. Sgobbano senza sosta, il desiderio di riscatto spinge molte donne a un impegno doppio, ad esempio a lavorare e prendersi cura della famiglia.
Come Mohna, una donna del Libano che stamane si è presentata al laboratorio di ricamo assieme al figlio di due mesi, Mahdi, di cui prevede un avvenire da medico. «Lui e i suoi fratelli, che ora sono a scuola, erano in mare con me e mio marito» ti dice mentre muove adagio il seggiolone a dondolo che sorregge il piccolo Mahdi. Nella casupola in pietra che tutti conoscono come il laboratorio di ricamo, Mohna lavora con Zaid e Abbheba, due ragazze di colore dell’Eritrea. Che sono diventate amiche lo hanno detto perfino a una giornalista venuta dalla Finlandia per un reportage sulla condizione degli immigrati. «Mi trovo bene con loro, vengo a lavorare con piacere. Non tornerei mai in Libano, alla guerra preferisco Riace».

sabato 27 settembre 2008

Rom a Riace

Da ReggioTV - Venerdì 26 settembre 2008, 18:29

Rom: a Riace in centinaia per festa patroni della comunità

Riace (Reggio Calabria). Oltre quindicimila persone, tra cui anche centinaia di rom, hanno partecipato stamani a Riace alla tradizionale processione dei Santi Cosma e Damiano. Dopo aver partecipato ad una intensa veglia di preghiera, arricchita anche da canti e balli, stamani i rom giunti a Riace da tutte le regioni dell'Italia Meridionale hanno partecipato alla processione dei santi protettori della loro comunità.
La processione, così come accade ogni anno, è partita dalla chiesa matrice del paese della Locride per poi raggiungere il Santuario dei Santi Cosma e Damiano che si trova ad una distanza di circa due chilometri dal centro abitato della cittadina della locride.
"Come accade ogni anno - ha detto il sindaco di Riace, Domenico Lucano - c'é stata una intesa partecipazione popolare. La nostra è una manifestazione religiosa particolarmente sentita dai rom che arrivano da tutte le regioni meridionali. Quest'anno a Riace questo evento religioso è caratterizzato dalla voglia di riscatto della locride che passa attraverso due criticità nazionali: l'immigrazione ed i rom".

Il video si riferisce alla festa del 2005

venerdì 26 settembre 2008

Persecuzione dei valdesi di Calabria

Ancora dal sito del Comune di Guardia Piemontese.

La Porta del Sangue, che era la porta di ingresso principale
al paese, è così chiamata poichè si narra che durante l'assalto
a Guardia Piemontese, perpetrato dalle truppe del Marchese Spineli, il sangue vi scorresse a fiotti

Con l'avvento degli spagnoli nell'Italia meridionale, e in epoca della Riforma protestante, gli eventi mutarono radicalmente presso le colonie valdesi in Calabria che fino a quel punto avevano goduto del rispetto e della protezione dei signori locali.
Nel 1532, il Sinodo generale di Chanforan, in Val d'Angrogna, sancì l'adesione alla Riforma protestante del movimento valdese.
In Calabria, le colonie valdesi furono esortate da pastori protestanti ad abbracciare il culto pubblico seguendo l'esempio dei confratelli delle valli piemontesi che già da diverso tempo avevano deciso di non nascondere più la loro fede. I valdesi di Guardia conobbero e abbracciarono, grazie alle visite periodiche di pastori provenienti dalle Valli, la nuova dottrina di Calvino.
Spinti dall'entusiasmo inviarono nel 1558, nonostante il divieto posto dal pastore Egidio Gilles, un certo Marco Uscegli a Ginevra per avere altri pastori. Da Ginevra fu mandato in Calabria un certo Gian Luigi Pascale accompagnato dallo stesso Uscegli e da altri fratelli. La predicazione di Pascale entusiasmò ancor di più i coloni fino al punto di attirare l'attenzione del Marchese Spinelli, il quale, informato degli eventi e temendo l'intervento del Sant'Uffizio, tentò dapprima di esortare Pascale e Uscegli ad abbandonare i luoghi delle loro predicazioni, quindi, resosi conto della loro assoluta determinazione nel perseguire l'opera di riforma, li fece arrestare.
Molti valdesi guardioli indignati per gli arresti accusarono il Marchese Spinelli di angherie nei loro confronti al Viceré di Napoli. Fu a questo punto che Spinelli denunciò i guardioli come eretici allo stesso Viceré.
Pascale, Uscegli e altri fratelli furono trasferiti prima nelle carceri di Cosenza, quindi a Napoli ed infine a Roma. Invano tentarono alcuni frati cattolici nel convincere Pascale e gli altri a rinnegare la loro fede. Gian Luigi Pascale fu impiccato la mattina del 16 settembre 1560 nella piazza di Castel Sant'Angelo e il suo cadavere fu poi bruciato. Non si conosce invece il destino che ebbe Uscegli.

Processo verbale della morte di Gian Luigi Pascale redatto dalla confraternita di S. Giovanni Decollato
(l'originale è conservato presso l'Archivio di Stato di Roma).
Domenica sera addì XV settembre a ore una incirca di notte sendo stati giamati andammo in tor di nona dove era condennato a morte Gio:Luigi Pascale di Gunio di Piemonte il quale era luterano perfido nemmaj volse confessarsi ne udire messa nekando ogni S° ediuno precetto e sagramento inquale sua ostinacia resto lunedì mattina addì XVI detto fu condotto a ponte dove fu abruciato e si feciero le appresso spese.
A sachrestany e fattori baiocchi 45 p. un viaggio a fachini baiocchi 15 p. una foglietta di vino baiocchi 5 La cenere di detto Gio:Luigi Pascale non si ricolse altrimenti

Il Viceré di Napoli, d'accordo con il Grande Inquisitore, il cardinale domenicano Michele Ghislieri, futuro pontefice e santo Pio V, esortò i governatori delle province ad "estirpare le eresie".
La prima colonia a cadere sotto i colpi dell'esercito vicereale fu quella di San Sisto. Molti valdesi si diedero alla fuga ma vennero rintracciati nei boschi. Vi fu chi venne giustiziato sul posto, altri vennero fatti prigionieri. Le case furono distrutte e i beni confiscati. Fu a questo punto che il marchese Spinelli decise di impadronirsi di Guardia, e per far ciò ricorse ad uno stratagemma.

Ecco la descrizione che ne fa il Tommaso Costa, napoletano e cattolicissimo:
Egli dunque tentò insignorirsi di Guardia, senza ottenere le truppe crociate. A cui non bastando i suoi uomini d’arme, ricorse ad uno stratagemma, a un tranello. Come signore dei luoghi, egli finse dover spedire in Sammarco una cinquantina di delinquenti ed essendo inoltrato il giorno chiese di farli pernottare nel castello di Guardia e l’ottenne. Il comune non si niegava punto alla signoria del marchese; non si proponeva che di difendere la propria vita contro le orde di cereali, sapendo dietro l’esempio di San Sisto che non era a sperare misericordia. Li supposti delinquenti erano d’arme dello Spinelli; ed entravano in Guardia scortati da cinquanta altri giovani, tutti armati di sotto alle vesti di archibugetti a ruota. Quei di Guardia erano gente semplice, di buona fede. Lo stratagemma, comunque inorpellato, raggiunse lo scopo. Caduta profonda la notte, quei cento uomini sbucarono dalle carceri e dal castello, si avventarono per le case, facilmente si impadronirono del luogo e con prestabilito segnale ne avvisarono lo Spinelli, appostato nelle vicinanze con altri armati.Così avrebbe egli potuto imprigionare i più notevoli di quei terrazzani, e dare il luogo senza contrasto in balia delle truppe.
(Compendio dell’Istoria del Regno di Napoli per Collenuccio, Roseo e Costo. Napoli, Gravier, III, 210)

Era il 3 giugno 1561. L’unica testimonianza di quello che accadde in quei giorni è contenuta in tre lettere scritte da persona di Montalto:
In quei giorni si diede fuoco alle case di Guardia si abbatterono le mura si tagliarono le vigne.Nei primi undici giorni del mese di giugno ben, 2000 persone furono uccise, ma non bastando "si volle dare un formale esempio". I prigionieri Guardioti stavano chiusi ammucchiati dentro una casa. La mattina dell’11 venne il boia a pigliarsi a una a una le vittime. Trattone quello che gli capitava tra mano, gli legava una benda sugli occhi e menavolo in un luogo spazioso poco distante da quella casa. Qui fattolo inginocchiare, con un coltello gli tagliava la gola e lo gettava da parte cadavere o agonizzante com’era. Ripresa poi quella benda e quel coltello, su tutti gli altri ripeteva la stessa operazione. In quest’ordine ottanta otto persone furono sgozzate.
(Archivio Storico, prima serie, IX 163. Lettere riprodotte da Veggezzi - Ruscalla nel suo "Colonia Piemontese in Calabria", Torino 20 novembre 1862)
Gli spioncini, ancora oggi presenti su alcune porte,
furono imposti dall'Inquisizione
al fine di sorvegliare gli antichi coloni

Di tutte le colonie valdesi in Calabria l’unica a sopravvivere fu quella di Guardia Piemontese, dove furono raccolti tutti i graziati a condizioni durissime e sotto il controllo del "fedelissimo" marchese Spinelli.
Non gli era permesso sposarsi fra loro, sulle porte furono posti degli spioncini che dovevano rimanere sempre aperti per permettere ai sorveglianti di controllare che "non si abbandonassero a pratiche religiose non cattoliche".
Fu in questo periodo che per confermare la sua presenza il Vescovo di Cosenza fece costruire una Chiesa. Successivamente la famiglia Spinelli iniziò l’edificazione del Convento dei Domenicani "e vi poneva l’inquisizione in permanenza".

Valdesi di Calabria: alcuni caratteri

Continua, sempre presa dal sito del Comune di Guardia Piemontese, questa prima carrellata sui Valdesi di Calabria.

LA LINGUA OCCITANA
Il termine Occitania venne coniato nel 1290, per definire l'insieme dei territori in cui veniva utilizzata la lingua d'oc (idioma alternativo alla lingua d'oïl e a quella del sì).
La storia di questa lingua è molto antica e va fatta risalire ai primi contatti e influssi ellenici che interessarono quest'area (che si può definire delimitata dal Mediterraneo, dai Pirenei, dall'Atlantico, dal Massiccio Centrale e dalle montagne del Delfinato).
Prepotenti furono successivamente gli influssi dell'espansione dei romani in Gallia: il latino si insinuò fortemente nella lingua occitana, modificandola soprattutto dal punto di vista verbale. Le invasioni barbariche del V e VI secolo portarono altri influssi minori.
I primi scritti in lingua occitana si ritrovano nel 900 d.C., e i primi versi dei troubadours nel 1100. Dal 1100 al 1200 la lingua occitana si diffuse in tutta Europa affascinando anche molti poeti italiani e francesi.
Una delle forti componenti della cultura occitana era la strenua contrapposizione al potere cattolico: circostanza che determinò forti rivalità con il papato e la corona francese. Lo scontro fu reso più aspro dal concatenarsi del movimento eretico càtaro con lo spirito di autonomia culturale occitano. Il "cuore ribelle di Francia" divenne allora un pericolo che la monarchia non esitò a togliere di mezzo, indicendo una vera e propria crociata contro i Càtari.
Nel corso del 1400 molti intellettuali occitani continuarono a scrivere opere nella loro lingua madre, definitivamente bandita dal re di Francia Francesco I nel 1539. Da questa data la lingua occitana venne degradata al ruolo di parlata regionale e catalogata dai linguisti francesi come patois in senso dispregiativo.
Fu grazie al poeta Fréderic Mistral che, nella seconda metà dell'800, la lingua occitana riacquistò la sua dignità, potendo "risorgere " durante tutto il corso del '900.
Molto intelligentemente, il Comune di Guardia ha fatto un vocabolario della parlata attuale (guardiolo), che potete consultare e scaricare sul sito stesso.

ECONOMIA
Sul piano economico, i valdesi di Calabria, continuarono ad esercitare quelle attività che già praticavano nelle Valli piemontesi, ed in particolar modo si dedicarono all'agricoltura e alla pastorizia.
Tra le attività più redditizie praticate dai valdesi occorre menzionare l'allevamento del baco da seta che assieme alla lavorazione della lana costituiva la risposta al soddisfacimento di buona parte della domanda, locale e non, del mercato tessile di pregio.

USI RELIGIOSI
Dal punto di vista religioso, i valdesi esercitavano la loro fede con molta prudenza. Le loro riunioni religiose si svolgevano per lo più in abitazioni private, dove venivano lette le Sacre Scritture e si pregava recitando nel dialetto delle Valli.
Sebbene non adorassero le immagini dei Santi e della Madonna ed i loro riti potessero essere presieduti da chiunque fosse credente, seppero tenere per lungo tempo lontani i sospetti del clero, anche perché per gli atti religiosi con valore giuridico come i battesimi, i matrimoni e i funerali ricorrevano sempre alle chiese cattoliche e, inoltre, godevano della protezione dei nobili che li avevano accolti nei loro feudi per coltivarli in cambio di un canone d'affitto.
Nel caso di Guardia, il feudo che ospitava la colonia era quello di Fuscaldo di cui era proprietario il Marchese Salvatore Spinelli.

Valdesi di Calabria: Origini

Per queste prime presentazioni degli Occitani/Valdesi di Calabria saccheggio il sito (molto ben fatto, sebbene in costruzione) del Comune di Guardia Piemontese, al quale rinvio per maggiori informazioni.

I VALDESI
Il movimento valdese, al pari di altri movimenti di rinnovamento cristiano, nasce come tentativo di riportare la Chiesa di Roma, corrotta dal potere e nei costumi, agli ideali evangelici e all'insegnamento di Gesù.
Questo movimento fu fondato in Francia, a Lione, nel 1174 ad opera di un ricco mercante, Valdès o Valdo (poi chiamato Pietro Valdo), il quale utilizzò una parte delle sue ricchezze per far tradurre le Sacre Scritture in lingua volgare.
I valdesi incominciarono a predicare gli insegnamenti di Cristo in tutta la Francia meridionale, denunciando il degrado della Chiesa e la sua immoralità, fino a quando non furono condannati come eretici nel Concilio di Verona (1184), condanna che divenne definitiva nel IV Concilio Lateranense del 1215.
Dopo la scomunica, i loro seguaci si diffusero in Italia settentrionale e da lì si estesero in Austria e in Germania dove il movimento anticipò, più di ogni altro, aspetti che in seguito avrebbero caratterizzato la Riforma protestante del XVI secolo.

GUARDIA PIEMONTESE
In rosso, le località ad antico insediamento valdese,
in blu altri luoghi dove abitarono
Non si sa quando i valdesi giunsero in Calabria, né se ne conoscono con precisione i motivi.
Secondo alcuni studiosi, essi, vi giunsero attorno al XIII secolo spinti dall'esigenza di sfuggire alle persecuzioni in atto nelle valli piemontesi; secondo altri, ed è questa l'ipotesi più accreditata, il loro arrivo è da datarsi nella prima metà del XIV secolo a causa della mancanza di occupazione determinata dalla sovrappopolazione delle Valli.
In Calabria i valdesi trovarono terre molto fertili: "essendovi colline e pianure ornate da ogni sorta di alberi fruttiferi, come noci, castagne, ulivi, melangole ecc., e di terreni atti a ricevere ogni sorta di sementi, fecero colà convenzioni che pagando un tributo dei terreni che possiederebbero, potessero abitare a parte e fra loro costituire una comunità o più, e stabilire regolatori, con facoltà di imporre tagli e di esigerle senza essere obbligati di prenderne altra permissione nè renderne conto alcuna, eccetto fra di loro" (Giglio, "Istoire des èglises rèformèes autresfois applèes vaudoises", Ginevra, 1644).
Di tutto ciò le genti delle Valli ottennero regolare "istrumento" confermato dal Re di Napoli Ferdinando di Aragona.
I valdesi, oltre che a Guardia Piemontese (allora chiamata La Guardia), si insediarono in altre località della attuale provincia di Cosenza tra le quali occorre ricordare: Montalto Uffugo, Vaccarizzo, San Vincenzo La Costa e San Sisto dei Valdesi.
Fra tutti questi insediamenti, Guardia Piemontese è attualmente, e da moltissimo tempo, l'unico posto in cui si è conservata l'antica lingua occitana e, fino a non molto tempo fa, anche l'uso del costume tradizionale.
Il luogo fu scelto probabilmente per la sua posizione elevata (circa 514 metri sul livello del mare) e fu cinto da mura a scopo difensivo, inglobando l'antica torre d'avvistamento realizzata (assieme a molte altre sparse lungo la costa tirrenica) tra XI e il XII secolo per segnalare in anticipo le incursioni di pirati e saraceni.
Ecco come viene descritta Guardia dal Vegezzi – Ruscalla nel suo "Colonia Piemontese in Calabria" (Studio Etnografico - Torino 20 novembre 1862):
"Nella estrema parte d’Italia, dove la gran catena degli Appennini rasenta le tepide onde del Tirreno, ai piedi dell’Alpe che ha nome la Cresta del Bitonto, fra il rivo dei Vani a borea ed il rivo della Scala ad austro, nel territorio già, negli antichissimi tempi, della repubblica Turina ed ora della provincia della Calabria citeriore, circondario di Paola, mandamento di Cetraro, sorge sur una montagnuola un paesuccio, che, giusta l’anagrafe data dalla statistica amministrativa del 1861, contava 1517 abitanti dediti alle pacifiche cure dei campi ed in ispecial modo alla cultura dei bachi da seta. Alpestre ne è il territorio, però bene vi allignano la vite, il fico, l’olivo, il gelso ed i cereali, ma ciò che fa meglio conosciuto questo paese si è una sorgente termale di antica celebrità, le cui acque sono un potente rimedio contro le affezioni nervose da cui trasse il nome il vicino paese di Fuscaldo (Fons Calidus). Esso Comune ha nome Guardia, e la favella dei suoi abitanti è diversa da quella dei Comuni circonvicini, come è diversa la foggia di vestire delle donne, non che alcune costumenze rurali".

giovedì 25 settembre 2008

Arbëreshe in Calabria: panoramica

Dal sito Guzzardi - Arberia

In Calabria conservano l'uso della lingua albanese
58.435 abitanti,
in 35 comuni:
27 in provincia di Cosenza,
5 in provincia di Catanzaro,
3 in provincia di Crotone.
Eccone l'elenco in ordine alfabetico
(diviso nelle tre province)
e con il nome in italiano e in arbëresh.

COSENZA

1 Acquaformosa Formòza
2 Castroregio Kastërnèxhi
3 Cavallerizzo Kalvarìci
5 Cerzeto Qàna
6 Civita Çifti
7 Eianina Ejanìna
8 Falconara Albanese Fallkunàra
9 Farneta Farnèta La Certosa
10 Firmo Fèrma
11 Frascineto Frasnìti
12 Ioggi Jòxhi
13 Lungro Ungra
14 Macchia Albanese Màqi
15 Marri Màrri
16 Plataci Pllàtani
17 San Basile Shën Vasìlj
18 San Benedetto Ullano Shën Bendìti
19 Santa Caterina Albanese Picëlìa
20 San Cosmo Albanese Strigari
21 San Demetrio Corone Shën Mìtri
22 San Giacomo di Cerzeto Shën Jàpku
23 San Giorgio Albanese Mbuzàti
24 San Martino di Finita Shën Mertìri
25 Santa Sofia d'Epiro Shën Sofia
26 Spezzano Albanese Spixàna
27 Vaccarizzo Albanese Valkarìci

CATANZARO

28 Amato Amàti
29 Andali Andalli
30 Caraffa di Catanzaro Caràfa
32 Marcedùsa Marçëdhùza
35 Vena di Maida Vìna

CROTONE

31 Carfizzi Karfici
33 Pallagorio Puhërìu
34 San Nicola dell'Alto Shën Kolli

Arbëreshe, breve storia

Dal bel sito Vatra Arbëreshe, una breve presentazione storica dell'immigrazione degli albanesi nell'Italia meridionale e in Sicilia.

L'emigrazione albanese in italia è avvenuta in un arco di tempo che abbraccia almeno tre secoli, dalla metà del XV secolo alla metà del XVIII: si trattò in effetti di più ondate successive, in particolare dopo il 1468, anno della morte dell'eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderberg.
Secondo una tradizione di studi storici consolidata e anche secondo studi recenti sono almeno otto le ondate migratorie di albanesi nella penisola italiana, cui va aggiunta l'ultima recentissima cominciata all'inizio degli anni novanta del 1900.
Gli albanesi in genere non si stabilirono da subito in una sede fissa, ma si spostarono più volte all'interno del territorio italiano e ciò spiegherebbe anche la loro presenza in moltissimi centri italiani e in quasi tutto il Meridione.

La prima migrazione risalirebbe agli anni (1399 – 1409), quando la Calabria era sconvolta dalle lotte tra i feudatari e il governo angioino e gruppi albanesi fornirono i loro servizi militari.

La seconda migrazione risale agli anni (1416 – 1442), quando Alfonso I d'Aragona ricorse ai servizi del nobile condottiero albanese Demetrio Reres; che portò con sé un folto seguito di uomini. La ricompensa per i suoi servigi consistette nella donazione, nel 1448, di alcuni territori in Calabria e, ai suoi figli, in Sicilia, (paesi di Caraffa, Pellegorio, S. Nicola e Carfizzi vicino a Catanzaro e Piana degli Albanesi in Sicilia.).
(E ancora oggi le comunità più numerose si trovano in queste due regioni.).

La terza migrazione risale agli anni (1461 – 1470), quando Giorgio Castriota Skanderbeg, eroe nazionale albanese che aveva combattuto e respinto l'invasione turca nel 1443., inviò un corpo di spedizione albanese guidato dal nipote Coiro Stresso il quale Sbarcò nel 1461 a Barletta in aiuto di Ferrante I d'Aragona in lotta contro Giovanni d'Angiò;e i baroni ribelli, vinse e ricevette in premio il Gargano, Trani e S.Giovanni Rotondo. Sorsero così i paesi italo-albanesi di Chieuti, San Marco in Lamis, Roccaforzata e Martignano.

La quarta migrazione (1470 - 1478) coincide con un intensificarsi dei rapporti tra il Regno di Napoli e i nobili albanesi, anche in seguito al matrimonio tra una nipote dello Skanderberg e il principe Sanseverino di Bisignano e con la caduta di Krujia la quale nel 1478 cadde sotto il dominio turco e determinò una nuova migrazione verso l'Italia, migrazione guidata da Giovanni Castriota, figlio di Scanderbeg, verso i feudi di Soleto e Galatina nella penisola salentina. Queste popolazioni successivamente si trasferirono in Calabria e fondarono le comunità di San Demetrio, Macchia, San Cosmo, Vaccarizzo, San Giorgio, Santa Sofia, Spezzano e quasi tutte le altre comunità della provincia di Cosenza: 32 comunità italo-albanesi.
In questo stesso periodo una fiorente colonia albanese era presente a Venezia e nei territori a questa soggetti.

La quinta migrazione (1533 - 1534) coincide con la caduta della fortezza albanese di Corone sotto il controllo turco e fu anche l'ultima migrazione massiccia.

La sesta migrazione (1664) coincide con la migrazione della popolazione della città di Maida, ribellatasi e sconfitta dai Turchi, verso Barile, già popolata da albanesi in precedenza.

La settima migrazione (1744)vede gli abitanti Chimaroti, provenienti da Pikernion non lontano da Santi Quaranta nell'Albania meridionale, rifugiarsi a Villa Badessa (provincia di Pescara) in Abruzzo.

L'ottava migrazione (1774) vede un gruppo di albanesi rifugiarsi a Brindisi di Montagna, in Basilicata.

La nona migrazione è quella in atto ancora oggi.

mercoledì 24 settembre 2008

Calabria arcobaleno

Nel post precedente ho tratteggiato sommariamente la storia più antica del sovrapporsi di popoli e genti in Calabria, fino al delinearsi della divisione tra Calabria Citeriore e Ulteriore.
Ora proseguo l'excursus storico: soffermandomi sulle presenze attuali.

Accanto a Greci e Latini, numerori altri popoli giunsero nella nostra terra, alcuni per assimilarsi facilmente, altri continuano ad abitarvi, ed altri ancora se ne andarono o furono scacciati.

Il mito narra di Aschenez, pronipote di Noé, giunto a fondare Reggio: una leggenda che rimanda ad antiche frequentazioni orientali (probabilmente fenicie) che però non lasciarono tracce.
Ma tra i semiti, fin dai primi secoli dell'era cristiana giunsero gli ebrei, il cui numero (pur tra continue cacciate e rientri, conversioni forzate e spontanee e ritorni alla fede dei Padri) crebbe insieme all'influsso economico e culturale fino alla cacciata definitiva del 1541. Restano oggi tracce nei cognomi e in molte usanze variamente diffuse.
Anche gli arabi popolarono la Calabria a partire dall'VIII secolo, e sebbene per lo più si limitassero ad incursioni e depredazioni, vi fondarono emirati (Amantea, Santa Severina, Squillace) che durarono vari decenni, e la loro presenza rimane nei cognomi, in molte parole, in modi di dire (si Dddiu vola, comu vola Ddiu = inshallah) e forse in un certo atteggiamento caratteriale improntato alla rassegnazione.
Degli ebrei oggi non ci sono che presenze isolate, e difficoltosa sarà l'opera di ricostituzione di una comunità; esiste però la comunità riformata di Rabbi Barbara Aiello, che ha aperto una sinagoga a Serrastretta.
Gli Arabi stanno ora tornando non più come invasori, ma come immigrati, ma si tratta di un altro fenomeno storico, che pone diversi e numerosi problemi, ed il cui esito potremo vedere tra non prima di decenni.
Accanto a loro, si ha in alcuni paesi un insediamento di piccoli gruppi di Curdi, qui sbarcati in fuga dalla guerra e dalla miseria.

Con gli eserciti bizantini giunsero anche gli Slavi (segnatamente bulgari, o almeno questo era il nome che veniva loro dato, anche se probabilmente erano di varia origine) e gli Armeni; più numerose sono le tracce di questi ultimi, sebbene gli uni e gli altri abbiano finito per essere rapidamente assimilati.
Ora si assiste di nuovo ad un ritorno (in forme analoghe a quelle degli Arabi, e che pone più o meno le stesse problematiche), particolarmente di Ucraini, Russi e Bielorussi, ed insieme a loro i Latini d'Oriente, i Romeni, il cui Patriarcato ha anche assunto la reggenza dell'antico Monastero di San Giovanni Theristis; con essi sta quindi tornando anche la presenza dei cristiani ortodossi, non essendo mai mancato però il rito bizantino, grazie agli Albanesi uniti alla Chiesa cattolica.

Con gli Albanesi (Arbresh, Arbëreshë) giungiamo a quella che è la più grande minoranza etnicolinguistica della Calabria, presente in tutto il Mezzogiorno e in Sicilia, ma soprattutto nella nostra terra, nella quale ha anche sede uno dei due episcopati di rito orientale (l'altro è a Piana degli Albanesi).
Essi giungero in varie ondate a partire dal XV fino anche al XVIII secolo, chiamati dai Durazzeschi che per un periodo regnarono a Napoli, e spinti dall'incalzare degli invasori turchi, e conservarono la loro religione, le loro tradizioni e (per lo più, sebbene al giorno d'oggi siano diminuiti rispetto al passato ed alcuni paesi abbiano perso coscienza della loro origine, per fortuna si assiste ora ad una riscoperta del patrimonio tradizionale) la loro lingua.
Si installarono in tutte le province, esclusa quella attuale di Vibo Valentia, e a Reggio solo a Casalnuovo, frazione di Africo, dove però oggi sono scomparsi.
Anche nel caso degli Albanesi (come per Arabi e Slavi) si ha un ritorno, ovviamente diverso da quello del passato.

Nel XIII secolo giunsero dal Piemonte, dalle valli al confine con la Francia, gli Occitanici di religione valdese, che qui trovarono asilo sicuro nella possibilità di coltivare la terra ed esercitare il piccolo artigianato, nei paesi del Medio Tirreno cosentino; con la Controriforma e l'Inquisizione la loro tranquillità finì, e a migliaia furono vergognosamente massacrati.
I pochi che riuscirono a sopravvivere, forzati alla conversione, mantengono ancora oggi le loro usanze e la loro lingua solo a Guardia Piemontese (già Guardia Lombarda).
Di nuovo oggi sono presenti in Calabria alcuni piccoli gruppi valdesi, ma non si tratta di Occitanici, bensì di calabresi che (vendetta della storia!) si sono convertiti.

Dal XVI secolo invece sono presenti i Rom (zingari), che spesso si sono integrati al resto della popolazione, tra la quale esercitavano il mestiere di calderai, ramai, e cavallari.
Cambiate le condizioni sociali, purtroppo, sono cambiate anche le loro abitudini di vita, con le problematiche che tutti noi sappiamo, e con i mille pregiudizi che li circondano.

Un cenno va fatto alla presenza dei Cinesi, che giungono qui come in ogni parte d'Italia, anche se (ancora?) in piccolo numero, dediti al piccolo commercio, come al commercio ambulante sono per lo più dediti alcuni africani.

Infine, dal punto di vista religioso, oltre ai cristiani cattolici (di rito latino e bizantino), valdesi e ortodossi, e alle fedi degli altri immigrati, bisogna annotare la crescita di altri gruppi cristiani, in particolare Pentecostali e Testimoni di Geova.

Mosaico Calabria

Comincio con questo post a delineare un quadro generale della storia e dell'attualità multietnica della Calabria.
Seguiranno poi una serie di articoli che tratteranno dei diversi popoli che hanno abitato e continuano ad abitare la nostra terra.
Basta prendere un elenco telefonico di un qualsiasi paesino calabrese (ad esempio il mio, Monasterace, o negli immediati dintorni) per scoprire la varietà delle origini dei calabresi.
Troviamo Anania, di chiara origine ebraica, e Diano, che ha la stessa origine.
Albanese e Bressi (Arbrèsh) indicano un'origine albanese.
Spanò (imberbe), Trìchilo, Chidìchimo e molti altri sono di origine greca.
Arabo è Morabito, e di origine occitanica (provenzale) è Lombardo (prima Guardia Piemontese si chiamava Guardia Lombarda, in quanto "Lombardia" indicava genericamente l'Italia settentrionale.
Calderaro e Cavallaro sono spesso di origine rom (zingara).
Altri cognomi hanno origini più ambigue: gli apparentemente chiari Siciliano, Pugliese, Catalano e simili, oltre ad indicare l'origine da un antenato proveniente dalle rispettive regioni, possono indicare un'appartenenza ebraica; Greco può indicare anche un'origine albanese (gli arbresh spesso venivano chiamati "greci" o per confusione o perché realmente molti venivano da zone albanofone della Grecia) o ancora una volta ebraica, in quanto vi furono in Calabria molti ebrei provenienti dalla Grecia; Armocida può essere di origine greca (da armogios, frantoio) o araba (da al mujid, guerriero).

Posta, con la Sicilia, al centro del Mediterraneo, la Calabria è sempre stata una terra di passaggio, naturalmente destinata a diventare quel mosaico di genti, popoli, lingue, culture e religioni che è sempre stata e continua ad essere, ricca di influssi del passato e del presente.
Nell'antichità si succedettero Siculi e Tirreni, Coni e Itali (non dimentichiamo che originariamente il termine "Italia" indicava un territorio corrispondente all'incirca all'attuale provincia di Reggio), Morgeti, Pelasgi, Enotri, Campani, Mamertini (alcuni popoli in realtà sono mitici, ma altri ancora mancano all'elenco), fino alla forte stirpe dei Bruzi (Bretti), che diede nome alla terra fino all'VII sec. dC.
A questi popoli indigeni si sovrapposero gli Elleni, le cui colonie influenzarono profondamente la cultura fino alla stessa lingua e alla religione, e la Calabria fu conosciuta come Magna Grecia. Sconfitti questi dai Bretti e poi definitivamente dai Romani, giunsero fino a noi, nei secoli prima dell'era cristiana, la cultura e lingua latine, ma già nel VI secolo con Giustiniano e poi sempre più fortemente fino all'XI secolo, quando giunsero i Normanni, i greci ripresero il sopravvento, con la loro lingua e la loro religione ortodossa: fino al XVI secolo esistevano ancora diocesi di rito orientale, e la lingua greca prevalse a lungo nella Calabria meridionale, riducendosi sempre più, fino a restare confinata ad alcuni paesini dell'Aspromonte intorno a Bova.
Calabria Ulteriore
Calabria Citeriore
A questo duplice avvicendarsi di Greci e Latini è legata la divisione linguistica e culturale in Calabria Citeriore (all'incirca la provincia di Cosenza) e Ulteriore (il resto della Calabria), tanto che fino a qualche decennio fa si parlava sia di Calabria che di Calabrie.
Nella prima, gli influssi latini sono assolutamente preponderanti, ed anzi, nella estrema zona settentrionali sono presenti caratteristiche che si ritrovano solo nella confinante fascia lucana, oltre che in Sardegna: conservazione della qualità delle vocali (mentre nella restante Calabria e in genere in Italia, la quantità ha influito notevolmente; così qui si ha nUce e vOce, a differenza dell'italiano nOce e vOce, e del calabrese nUce e vUce), e nella coniugazione del verbo sono conservate "s" e "t" finali: tu canti, egli canta e voi cantate sono rispettivamente càntasi, càntadi e cantàsi (dal latino cantas, cantat e cantatis).
Nella Calabria Ulteriore si ha invece una forte rilevanza dell'elemento greco, sia nel lessico che nella grammatica e nella sintassi: assenza quasi totale dei tempi composti del verbo, rarità dell'infinito a vantaggio di costruzioni diverse (voglio cantare = vojju u cantu), e altro ancora.
Tra gli studiosi è ancora accesa la discussione se si debba parlare di una latinizzazione all'epoca normanna dopo una grecità quasi ininterrotta che risale alla Magna Grecia, o di una rilatinizzazione, dopo la grecizzazione succeduta alla caduta dell'Impero occidentale.
Il mio parere personale è che, come è accertato ai tempi dei Bretti e dei Greci, in Calabria ci sia stata una tradizione continua di bilinguismo, con successive contrazioni ed espansioni delle due lingue, che di volta in volta si alternavano come lingue del popolo e dei dotti.
Accanto alla grande distinzione tra Greci e Latini, abbondanti furono influssi e presenze di altro tipo, che presto vedremo...

martedì 23 settembre 2008

Al ritmo del vento

Con molto piacere inauguro questo mio nuovo blog con la minoranza etnica forse più antica, più diffusa, ed essenzialmente più sconosciuta, tanti e tali sono i pregiudizi che (spesso in modo del tutto irrazionale) la colpiscono.
In questo bell'articolo viene presentato il loro incontro annuale in occasione della festa dei Santi Cosma e Damiano a Riace.

Francesco Sorgiovanni da il Quotidiano della Calabria - Domenica 21 settembre 2008 51

A Riace il raduno di rom, sinti e gitani provenienti dalla Calabria e dalle regioni vicine
Dal 24 al 27 settembre canti, balli falò e lunghe veglie notturne Poi la processione dei santi Cosimo e Damiano

“Liberi come il vento”, chi non ha desiderato una volta nella vita di esserlo.
Liberi senza legami, cose e luoghi, pronti ad incontrare popoli e culture, cittadini e pellegrini nel mondo, a casa e in qualsiasi altro luogo. Questo lo spirito che anima il “popolo del vento”, gli zingari, sinonimo per gli “stanziali” di ostilità e diffidenza.
Un'occasione per incontrare questo popolo e conoscerlo meglio è assistere o partecipare al pellegrinaggio dei gitani durante i festeggiamenti dei santi Medici Cosimo e Damiano, protettori degli zingari, che ogni anno, dal 24 al 27 di settembre, raduna a Riace, rom, sinti e gitani, provenienti da tutta la Calabria e dalle regioni vicine; animando di suoni e colori un ambiente naturale, che d'un tratto si carica di suggestioni uniche.
Arrivano con furgoni, camper e roulotte, occupano tutta l'area del santuario, fuori dal paese, la periferia. Quel luogo si trasforma così come un immenso mercato, un multicolore bazar fatto di bancarelle con prodotti di ogni tipo: lavori artigianali, tappeti, scialli e foulard, coperte, statuette dei santi, vasellami e fiori finti. I colori, l'intreccio fitto fitto anche in diversi dialetti, i richiami, la musica, i canti e le danze trasformano il paese in un palcoscenico totale dove si rappresenta la “romanance”, la voglia di libertà.
La festa di Riace è uno dei più grandi avvenimenti religiosi di un'area che tuttora conserva straordinari fenomeni di devozione popolare. La devozione per i Santi Medici rappresenta una religiosità antica e profondamente sentita soprattutto negli strati popolari di cui esprime l'angoscia esistenziale e l'ansia di riscatto dai mali fisici e soprattutto da quelli spirituali. Andare è il loro presente. Il pellegrinaggio corrisponde al modo di vivere, alla mentalità e alla religiosità degli zingari, i quali, come popolazione originariamente nomade, ha un’enorme esigenza di movimento.
Gli zingari amano qualsiasi forma di viaggio. In questi movimenti il pellegrinaggio è occasione privilegiata. Bisogna tener conto anche che gli zingari vogliono essere dappertutto protagonisti. Il pellegrinaggio è motivo per vestirsi solennemente, fare processioni in gruppi, cantare dal profondo del cuore a piena voce ed essere felici, ballando, perché tutta la festa è per loro.
I pellegrini si incamminano da luoghi lontani per raggiungere la cittadina ionica attraverso delle tappe intermedie in luoghi carichi anch'essi di significati religiosi e di intensi simbolismi. Altri rituali antichi sono tuttora vivi nel culto dei santi Cosimo e Damiano. Sono comportamenti carichi di una grandissima intensità emotiva.
Uno dei caratteri più originali della festa di Riace è la massiccia partecipazione di comunità nomadi provenienti, per la maggior parte, da tutta la Calabria, che esprimono, attraverso le danze e altri comportamenti cerimoniali, il loro particolarissimo sentimento religioso, costituendo uno degli aspetti più caratteristici della festa.
Si tratta di un fenomeno complesso che presenta una grande varietà di situazioni e di temi di estremo interesse religioso, storico e antropologico. Sono migliaia gli zingari che da ogni parte si radunano a Riace per prendere parte alla processione.
Fra veglie, preghiere e canti si assiste e si partecipa a una suggestiva cerimonia di folklore. La vera festa però è nelle strade, nella piazzetta, fra gli accampamenti, tra gli zingari che trascinano anche chi zingaro non è, alle danze, alle lunghe veglie notturne tra i falò e i canti della più classica tradizione gitana. Il pellegrinaggio dei nomadi di Riace, piccolo centro calabrese, nell'alto Jonio reggino, è uno spettacolo difficile da descrivere a chi non lo ha mai visto. Una folla, all'interno della quale si confondono prelati, zingari e turisti, musicisti e danzatori, attende e accompagna il viaggio delle statue dei santi Cosimo e Damiano, dall'antica chiesa del paese fino al santuario.
Il santuario di Riace, dedicato ai due santi, è situato a qualche chilometro di distanza dal centro urbano ed è fondazione basiliana di età normanna. Infatti, la nascita del culto di Cosimo e Damiano in queste contrade si ricollega alla diffusione nel Meridione d'Italia di tutte quelle forme di devozione di origine orientale ad opera dei monaci arrivati durante la dominazione bizantina. L'orientamento, la capacità di muoversi nel territorio, viene pure da oriente, da lì vengono i Rom in continuo movimento. Un viaggio continuo senza nostalgia, perché la nostalgia è legata al ritorno ed i Rom non hanno mai fatto guerre né avanzato pretese territoriali, sono forse l'unico popolo che non sogna una patria.
Al santuario dei santi Cosimo e Damiano il culto e la religiosità popolare si esprimono con una ritualità peculiare e diversa rispetto agli altri centri di fede e che si tramanda da generazione in generazione. Al santuario si radunano gli zingari per onorare quei santi che hanno nominato loro protettori. Per tutta la notte precedente il giorno della festa, organetti e tamburelli non cessano di suonare meravigliose tarantelle per la felicità di chi vuole ballare per tutto il tempo.
La mattina del 26, poi, i rom salgono in paese, davanti il sagrato della chiesa, continuano le danze e le invocazioni ai santi, quasi invitandoli ad uscire. Un tumulto di occhi, mani, seni di donne prorompenti, corpi massicci di uomini, occhi scuri che guardano, cercano, indagano o si perdono fra l'orizzonte e gli ulivi circostanti. I rom pranzano lungo la strada, intenti in grandi cotture collettive nelle pentole che ricordano la tradizione di calderai o in padelle giganti e poi via lungo le strade del paese, piene di gente, fin sul sagrato della chiesa dove suonano organetti, fisarmoniche, chitarre e tamburelli, un invito a danzare, zingari vestiti a festa, un ritmo quasi diabolico che porta lontano lontano come cavalli fatati. Nel momento dell'uscita delle statue dalla chiesa i, tamburelli sembra che si rompano, vista la forza con cui vengono percossi ed un colorato fiume umano si mette a danzare spostandosi verso il santuario.
Durante tutto il percorso, i suonatori non cesseranno mai di suonare ed i rom non smetteranno mai di danzare. E' così che si rimane presi dall'emozione nel vedere i bambini, vestiti come i santi, innalzati verso le statue fatte toccare o baciare e gli uomini e le donne offrire ex voto anatomici in cera e dolci tipici a base di farina e miele.
La massa colorata di uomini e donne non accenna a fermarsi. Uno spettacolo unico, splendido e vitale. Sullo spiazzo antistante il luogo di culto, a piccoli gruppi, gli uomini continuano a suonare. Accarezzano i loro strumenti, all'apparenza sgangherati, e, come per magia, nascono originali melodie.
Suoni mediterranei, comunque. Le loro donne si alternano nei balli. Tutti, uno dopo l'altro, si avvicinano alle statue e le sfiorano con gli occhi e le braccia invocanti.
Dalla chiesa in paese parte la lunga processione fatta di tantissima gente che veste costumi tradizionali con le lunghe gonne a balze o le camicie di colori sgargianti, abitanti del paese e curiosi, che avanza fino al santuario, tra preghiere, canti e gioiose invocazioni. Tutto il paese, come in un film di Kusturica, è popolato da zingari che suonano, mangiano e bevono, ballano e fanno festa ad ogni angolo di strada. Momento profano di un evento che, all'aspetto religioso, unisce quello della festa in un equilibrio possibile, forse, solo per il misterioso mondo degli zingari.
Non si tratta di un quadretto folkloristico, costruito ad uso e consumo dei turisti, ma di una tradizione autentica, espressione della straordinaria cultura di questo popolo vagabondo. A crocchi, i nottambuli si raccolgono intorno ai nomadi per danzare e cantare, sotto le mura del santuario e agli angoli delle strette vie del centro per i festeggiamenti che si protraggono per più giorni. In maniera colorata e festosa, freneticamente ballano gli zingari e i non zingari dinanzi le statue portate in processione il 26 settembre, dando vita a un ballo processionale unico nel suo genere.
In occasione dei festeggiamenti di settembre si rinnova con loro il più grande raduno religioso dei rom e si riesce a realizzare, almeno nei giorni della festa, una magnifica integrazione, con spirito solidale, tra queste famiglie nomadi e il resto della popolazione. Si abbatte un muro che tiene distinti e distanti durante gli altri giorni dell'anno. Non a caso, nel santuario di Riace è collocato anche il quadro raffigurante il beato Zefirino, “El Pelè”, un nomade cattolico spagnolo, martire nell'agosto del 1936, durante la guerra civile. Un vero Kalò (così il gitano chiama se stesso in Spagna), elevato agli onori degli altari nel 1997 da Giovanni Paolo II. Rappresenta una figura nobile, accanto a un maestoso cavallo, con attorno diverse scene della sua vita di coraggio. E' il patrono della gente zingara, uomo di pace e di preghiera, che ha preferito morire piuttosto che cedere il suo rosario ai laicisti spagnoli.
Zefirino è morto gridando “Viva Cristo Re”.
Quel grido che ha sconvolto l'oppressione culturale di tante dittature crudeli. Ieri e oggi. Giganti, all'apparenza.
Fragili statue, in realtà.
Perché dove non c'è verità, non c'è libertà. Una misteriosa coincidenza, con l'aria che tira, quella che il raduno degli zingari del meridione d'Italia avviene in un piccolo paese divenuto negli ultimi anni centro per l'accoglienza dei profughi, “popolo del vento” del terzo millennio, le frotte di clandestini che giungono dal mare. Riace testimonia la tolleranza e l'apertura alle culture diverse.
Nella festa, verso quella, ricchissima, di genti troppo spesso ingiustamente guardate con sospetto, quali sono gli zingari.
Un messaggio quanto mai benefico, specialmente di questi tempi. «Gli zingari sono la cartina di tornasole per una società civile», scrive lo scrittore ceco Vàclav Havel.
I festeggiamenti in onore dei santi Cosimo e Damiano si incominciano a celebrare al santuario di Riace sin da quando nel 1669 arrivano le reliquie di san Cosimo mandate da Roma e approvate al culto dal vescovo Francesco Tirotta in data 3 aprile 1671. Ne dà notizia e conferma padre Giovanni Fiore da Cropani, che nella sua “Calabria Illustrata” scrive: «Li SS. Cosimo e Damiano si fa festa singolare. Altresì nel territorio di Riace, villaggio della città di Stilo, diocesi di Squillace, dove si adorano con gran venerazione le reliquie di questi santi miracolosi, con gran concorso di buonaparte della provincia». Al tempo del Fiore la festa è già rinomata e “singolare” e cresce sempre di più fino al punto che il clero e il popolo richiedono di istituire canonicamente Cosimo e Damiano quali Santi Patroni del paese. E il 31 agosto 1734 così avviene, con obbligo di celebrazione “de precepto” della festa. Fin da questa seconda data che si incominciò a celebrare la festa religiosa dei Santi; si ritiene pertanto che a partire dal 1804, la festa si incominciò a svolgere secondo modalità e programmi tuttora vigenti.
Legata alla festa dei santi Cosimo e Damiano, è stata sempre la rinomata fiera di bestiame e mercanzie che richiama forestieri da tutta la Calabria e oltre.
Comunque la festa, il momento della festa, è sentito da tutti. Perché la festa è la manifestazione verso l'esterno della coesione interna ed è il momento di massima apertura di una comunità. Nella festa degli Zingari i non zingari sono sempre ben accolti. La notte scende un silenzio sospeso.
I nomadi sono tutti lì davanti al piccolo santuario illuminato con luci ondeggianti che fanno apparire la nuda parete come ricoperta d'oro fuso. S'alzano cori e preghiere, una cerimonia che sembra non avere fine, mentre va sciogliendosi con i grandi ceri. Anche oggi, comunque, lo zingaro è ancora un outsider.
Lo stesso a Riace. E' accettato e diverte quando si presenta, con la sua ammiccante furbizia e la sua secolare saggezza, come nei film, come nel “Tempo dei gitani” e nel “Gatto bianco, gatto nero” di Emir Kusturica, oppure quando si esibisce, come i Gipsy Kings o i Tekameli, sui grandi palcoscenici.
Ma nella realtà quotidiana rimane tuttora, e solo raramente per propria scelta, fuori dalla società che lo circonda: rimane «alle porte della città», come dice Olimpio Cari, zingaro, in una sua poesia.
«Alle porte della città aspetto un sorriso. Tu hai ballato nel bagliore del fuoco, con la musica del mio violino, ma non hai visto la mia tristezza.
Alle porte della città aspetto una mano. Sei venuto nella mia tenda, ti sei riscaldato al fuoco, ma non hai calmato la mia fame. Alle porte della città aspetto una parola. Hai scritto lunghi libri, hai posto mille domande, ma non hai aperto la mia anima. Alle porte della città aspettano con me molti zingari». Il giorno in cui scompariranno gli zingari, il mondo perderà non una virtù, ma una poesia.
E allora, anche la festa di Riace non sarà più la stessa cosa.